Un anno imprecisato del XVI secolo durante una
forte tempesta di scirocco.
Una nave da trasporto sta facendo rotta verso
Venezia con un carico molto eterogeneo, forse acquistato presso le grandi città
commerciali del Medio Oriente.
L' accesso più praticabile in laguna è la
"fuosa" portuale di Malamocco, anche se la rotta non è resa agevole
dal notevole insabbiamento che ha creato un canale tortuoso e di difficile
percorrenza.
Il forte vento da sud sferza il fasciame,
suscitando voti e preghiere nei cuori dei marinai tutti impegnati nella manovra
di riduzione delle vele.
Improvvisamente il vento rinforza e la nave
entra in balia delle correnti formate dallo scontro tra le acque lagunari e
marine. La prua affonda troppo spesso nel cavo dell' onda e la stiva comincia ad
imbarcare acqua.
Il vascello, senza più speranza, si inclina e
si inabissa proprio a pochissime leghe dal porto cui era destinato, trascinando
con sé una parte della microstoria di un'epoca.
Estate 1980. I resti di quell' antico naufragio
vengono individuati da un gruppo di sommozzatori veneziani esperti in rilievi
subacquei (A. e P. Molino, A. Socal, E. Turchetto, P. Zanetti).
Si tratta in assoluto del primo relitto
scoperto nelle acque antistanti Venezia, città che sulla navigazione ha fondato
la sua civiltà.
Dai rilevamenti si evince che il mare nel
frattempo ha smembrato la nave che, affondata in 11 metri d' acqua, non ha
resistito alle forti correnti in azione sui fondali.
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Prospezione subacquea sull'area di
dispersione del carico (1989-1990)
Fotografia Giorgio Merighi
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Gli scopritori, previa autorizzazione della
Soprintendenza, recuperano i reperti più esposti salvandoli da un sicuro
saccheggio ed eseguono un primo rilievo dell' area.
Autunno 1989 Uno dei primissimi interventi
organici di archeologia subacquea a Venezia viene avviato proprio sul relitto
del vetro.
L' intera Operazione, che rientra in un
organico Progetto dedicato all' Archeologia Subacquea della laguna e del mare di
Venezia elaborato dal Servizio Tecnico per l'Archeologia Subacquea dalle
competenti Soprintendenze, è stata finanziata grazie alla sensibilità
culturale del Gruppo ltalgas.
Essa ha previsto lo scavo integrale del sito,
il restauro, lo studio dei reperti e la loro esposizione in una mostra apertasi
a Venezia, in Palazzo Ducale, il 24 settembre del 1990.
Allo studio del relitto e degli aspetti più
direttamente connessi con esso, sono stati chiamati studiosi specializzati in
geomorfologia, algologia, architettura navale, archeologia medievale,
cartografia e storia medievale.
Al coordinamento dell' Operazione sono stati
preposti il Soprintendente Archeologo prof.ssa Bianca Maria Scarfì ed il dr.
Luigi Fozzati dello STAS.
Il relitto
L' estrema dispersione dei reperti sul fondo ha
richiesto il montaggio di un cantiere di grandi dimensioni pari ad un rettangolo
di metri 90 x 70, quasi un campo di calcio sott'acqua.
Esso, con qualche zona esterna, assomma ad un'
area indagata di circa 8.000 mq.
Tale rettangolo è stato suddiviso lungo i lati
maggiori in corsie larghe 5 metri che, non solo hanno consentito fruttuose
ricognizioni con il metal-detector, ma anche il rilevamento dei reperti per
coordinate cartesiane. Va anche detto che l'Adriatico non gode di un'
eccezionale visibilità subacquea che normalmente è sui 3-5 metri.
Il carico della nave era costituito in gran
parte da vetro verde grezzo in blocchi di varie dimensioni e da 50 mastelli di
legno ricolmi di scorie ferrose. Si tratta della classica zavorra commerciale
citata nei documenti veneziani a partire dagli Statuti Marittimi del Doge
Rainier Zeno (1255).
L' analisi chimica del vetro ha rivelato la
presenza del natron come fondente.
Questo elemento, costituito da diversi sali del
sodio, era anticamente molto diffuso in Egitto.
Gli Egiziani, i Romani ed i Bizantini se ne
servirono abbondantemente nelle loro officine vetrarie al posto della cenere.
Il dato è degno del massimo interesse: esso
potrebbe infatti illuminarci sulla possibile rotta del vascello, unitamente al
rinvenimento di un' insegna d' asta in ottone di tipo Ottomano con effigiata una
mezzaluna sopra un disco.
Questo reperto ha trovato confronti in
manoscritti turchi del XVI secolo, che la vedono utilizzata da reparti militari,
e con dipinti commemoranti la battaglia di Lepanto dove compare in forme
tridimensionali sulle poppe delle galere turche.
Supposizioni fantasiose potrebbero a i questo
punto suggerire la nazionalità turca del relitto. Gli elementi oggettivi non
consentono tuttavia certezze, se non quelle derivanti da una generica
indicazione di rotta.
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Insegna d'asta ottomana del XVI secolo -
fotografia Giorgio Merighi
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Il sito ha restituito alcuni reperti di epoca
romana.
Tra questi vogliamo ricordare una piccola
statua in bronzo di Ercole con i pomi delle Esperidi di produzione siriaca,
databile al II-III secolo d.C.
Il nesso tra un relitto tardomedieva le ed un
reperto di età romana apre il campo ad una ipotesi affascinante: il sito di
scavo ospita due navi di cui una più antica, estremamente smembrata dall' alta
energia dinamica in azione sui bassi fondali di Malamocco
A conforto della presenza di un' oneraria
romana con un carico particolare va detto che dall'area provengono altre due
basette bronzee pertinenti ad altrettante statuette e che, circa vent' anni fa,
un pescatore rinvenne, nel tratto di mare in questione, due piccole statuette
raffiguranti divinità dell' Olimpo.
L' armamento pesante della nave era costituito
da una piccola petriera in ferro forgiato munita di due caricatori a boccale
chiamati mascoli e da due bloccamascolo.
Si tratta di un' arma abbastanza rudimentale in
auge sulle navi commerciali fino alla prima metà del XVII secolo. Di migliore
convenienza economica per gli armatori, fu lentamente soppiantata dai cannoni
fusi in bronzo per evidenti motivi legati alla corrosione marina.
Quest' arma sparava palle in pietra e schegge
di ferro a mitraglia ed era montata a murata su una forcella basculante.
Si tratta in realtà di ben poca cosa per una
nave che doveva navigare in mari spesso insicuri .
E' tuttavia molto probabile che il vascello
viaggiasse in convoglio o, addirittura con le mude" delle galee commerciali
che costituivano un valido deterrente contro ogni aggressore.
E' anche possibile che, vista la bassa
profondità, dopo il naufragio i preziosi cannoni fossero recuperati da
sommozzatori in apnea.
Tali operazioni sono spesso ricordate nei
documenti assicurativi veneziani e sembra rientrassero nella normalità.
La vita di bordo sul relitto del vetro è
testimoniata da una serie di reperti del massimo interesse.
Si va, infatti, dall'attrezzatura quasi
completa per il calafato comprendente asce, scalpelli e palanchini, a falcetti e
basi in pietra per la lavorazione di oggetti non metallici.
La ceramica compare in forme purtroppo acrome
riferibili a bacini di grande diametro, molto simili ai tipici contenitori da
trasporto delle navi iberiche dell' epoca.
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Archivio di Stato S.E.A. FOND 63/2
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Due belle ancore ammiragliato sono purtroppo le
uniche testimonianze che possono condurci, con il carico, all' identificazione
del tipo di nave affondato davanti Malamocco.
Certamente non ci troviamo di fronte ad una
galea che possedeva ancore a rampino", ma dobbiamo indirizzarci verso un
qualche tipo di nave tonda molto simile a quelle che compaiono nei dipinti di
Vittore Carpaccio, di Raffaello o nella magnifica veduta di Venezia di Jacopo
de' Barbari (1500).
Si tratta in gran parte di cocche e di altre
imbarcazioni commerciali non meglio identificate (barzotti, berlingieri?).
Le cocche, importate dal nord-Europa e
costruite a fasciame sovrapposto (clinker), rivoluzionarono nel 1300 la
navigazione mediterranea per la loro superiorità tecnica ed economicità di
gestione rispetto ai tipi navali diffusi nei nostri mari.
E' molto probabile che il relitto del vetro sia
una cocca veneziana di dimensioni medio-piccole. desumibili dai dati ponderali
delle ancore.
La sua datazione, collocata nell' ambito del
XVI secolo, contribuisce ad arricchire lo scarno panorama dell' archeologia
medievale subacquea italiana.
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