LA NAVE DI ALBENGA

L’importanza di un relitto che ancora oggi è il simbolo della dell’archeologia subacquea modena

Di Maria Pia Pezzali in collaborazione con

Alessandro Tagliapietra (Gruppo ARGO Ricerche Subacquee)

e Massimo Giacomazzo


 

Che cosa c’entra Nino Lamboglia, l’Artiglio, il relitto di Albenga con mia nonna? All’epoca me lo chiedevo anch’io. Ma ero troppo piccola per capire. Troppo piccola per conoscere quei nomi. Troppo giovane per apprezzare il fatto che mia nonna (donna forte e dalla cultura e interessi straordinari) aveva incontrato e seguito da spettatrice quel recupero di anfore che divenne il caposaldo di tutta l’archeologia moderna. Qualche anno fa, proprio tra queste pagine (quando si dice il caso, era proprio nell’aprile del 2004) , mi ritrovai a pensare e ad accennarvi proprio a questo piccolo fatto, a quando ebbi il mio primo “contatto” con l’archeologia subacquea. Ero solo una bambina. Oggi, a distanza di decenni da quel mio primo approccio (inconscio) con l’archeologia subacquea e a distanza di pochi anni dal mio primo incontro con Alessandro Tagliapietra, torno a spolverare i ricordi. Questa volta riprendo in mano ciò che mia nonna ha lasciato tra le sue memorie, testi che mi sono stati dati proprio da mia madre: un libricino del Museo Navale Romano di Albenga (1951) e, ancora più interessante, il Diario di Scavo a bordo dell’ ”Artiglio” (1950) entrambi redatti per mano di Nino Lamboglia. Quello che vorremmo sottolineare in queste pagine è, in realtà, l’importanza di “come” uno scavo archeologico va realizzato e di “quanto” sia importante la tutela, oggi, per conservare e mantenere inalterata la memoria del nostro passato. La nave di Albenga costituisce uno dei più grandi relitti di età romana oggi conosciuti nel Mediterraneo. Lunga oltre 40 m. e larga circa 10, con propulsione esclusivamente a vela, aveva un carico stimato in circa 10.000 anfore contenenti vino della Campania o di altre zone dell'Italia centro-meridionale, piatti e coppe di ceramica in vernice nera che viaggiavano come merce di accompagnamento. La prima esplorazione, che interessò la parte centrale della nave, fu condotta nel febbraio 1950, a bordo della nave Artiglio, da Nino Lamboglia (oggi riconosciuto all’unanimità quale pioniere dell'archeologia subacquea mediterranea), e consentì, in poco meno di un mese, il recupero di ben 728 anfore e molto vasellame. L'impresa ebbe larghissima eco anche oltre i confini nazionali, nonostante l'inadeguatezza dei mezzi allora a disposizione e, in particolare, l'uso di strumenti rudimentali come la benna. Lo stesso Lamboglia denunciò con dolorosa consapevolezza, i danni che essa arrecò al relitto. Egli scrisse, poco più tardi: " il cimitero di anfore provocato dalla benna sulla nave avrebbe turbato l'animo di qualunque archeologo e turbò anche il nostro". Si capì allora l'importanza della documentazione grafica più ancora che il recupero in uno scavo. Ed è proprio quest’ultimo uno dei punti cardine di questo appuntamento con l’Archeologia subacquea: l’importanza dei mezzi per le operazioni di studio di un sito archeologico sommerso. .........


Il testo integrale è presente all'interno del mese di

Aprile 2006

della rivista

 
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