Che
cosa c’entra Nino Lamboglia,
l’Artiglio, il relitto di Albenga
con mia nonna? All’epoca me lo
chiedevo anch’io. Ma ero troppo
piccola per capire. Troppo piccola
per conoscere quei nomi. Troppo
giovane per apprezzare il fatto che
mia nonna (donna forte e dalla
cultura e interessi straordinari)
aveva incontrato e seguito da
spettatrice quel recupero di anfore
che divenne il caposaldo di tutta
l’archeologia moderna. Qualche anno
fa, proprio tra queste pagine
(quando si dice il caso, era proprio
nell’aprile del 2004) , mi ritrovai
a pensare e ad accennarvi proprio a
questo piccolo fatto, a quando ebbi
il mio primo “contatto” con
l’archeologia subacquea. Ero solo
una bambina. Oggi, a distanza di
decenni da quel mio primo approccio
(inconscio) con l’archeologia
subacquea e a distanza di pochi anni
dal mio primo incontro con
Alessandro Tagliapietra, torno a
spolverare i ricordi. Questa volta
riprendo in mano ciò che mia nonna
ha lasciato tra le sue memorie,
testi che mi sono stati dati proprio
da mia madre: un libricino del Museo
Navale Romano di Albenga (1951) e,
ancora più interessante, il Diario
di Scavo a bordo dell’ ”Artiglio”
(1950) entrambi redatti per mano di
Nino Lamboglia. Quello che vorremmo
sottolineare in queste pagine è, in
realtà, l’importanza di “come” uno
scavo archeologico va realizzato e
di “quanto” sia importante la
tutela, oggi, per conservare e
mantenere inalterata la memoria del
nostro passato. La nave di Albenga
costituisce uno dei più grandi
relitti di età romana oggi
conosciuti nel Mediterraneo. Lunga
oltre 40 m. e larga circa 10, con
propulsione esclusivamente a vela,
aveva un carico stimato in circa
10.000 anfore contenenti vino della
Campania o di altre zone dell'Italia
centro-meridionale, piatti e coppe
di ceramica in vernice nera che
viaggiavano come merce di
accompagnamento. La prima
esplorazione, che interessò la parte
centrale della nave, fu condotta nel
febbraio 1950, a bordo della nave
Artiglio, da Nino Lamboglia (oggi
riconosciuto all’unanimità quale
pioniere dell'archeologia subacquea
mediterranea), e consentì, in poco
meno di un mese, il recupero di ben
728 anfore e molto vasellame.
L'impresa ebbe larghissima eco anche
oltre i confini nazionali,
nonostante l'inadeguatezza dei mezzi
allora a disposizione e, in
particolare, l'uso di strumenti
rudimentali come la benna. Lo stesso
Lamboglia denunciò con dolorosa
consapevolezza, i danni che essa
arrecò al relitto. Egli scrisse,
poco più tardi: " il cimitero di
anfore provocato dalla benna sulla
nave avrebbe turbato l'animo di
qualunque archeologo e turbò anche
il nostro". Si capì allora
l'importanza della documentazione
grafica più ancora che il recupero
in uno scavo. Ed è proprio quest’ultimo
uno dei punti cardine di questo
appuntamento con l’Archeologia
subacquea: l’importanza dei mezzi
per le operazioni di studio di un
sito archeologico sommerso.
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Il testo integrale è
presente all'interno del
mese di
Aprile 2006
della rivista
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