Silurato dagli inglesi nel '41, ora i sub l'hanno esplorato per «Focus»
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Diaz, l'incrociatore scomparso |
Fotografata la nave che custodisce i resti di 464 marinai |
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Doveva
scortare la spedizione della riscossa, quei
mercantili con l'avanguardia dell'Afrika Korps
destinata a risollevare le speranze italiane nella
guerra di Libia. Per l'incrociatore Armando Diaz era
una missione di routine ma ad altissimo rischio: gli
inglesi erano sempre in agguato nel Canale di
Sicilia. Notte e giorno si scrutava l'orizzonte,
temendo i sottomarini o gli aerei nemici. Che
agivano a colpo sicuro: i nostri ammiragli non
sapevano che Londra decifrava le comunicazioni della
marina tedesca e quindi anticipava ogni mossa
dell'Asse nel Mediterraneo. Fu così che la Diaz
arrivò all'appuntamento con il destino nelle
primissime ore del 25 febbraio 1941: un sommergibile
britannico era in attesa a largo della Tunisia. Una
salva di siluri nel buio, due dei quali squarciano
la fiancata e fanno esplodere i depositi di
munizioni. In soli sei minuti il mare inghiotte
l'incrociatore e 464 uomini.
Da allora di quella nave non si è più saputo nulla,
come di altre decine di unità colate a picco nei
viaggi tra Italia e Nord Africa. Un mistero lungo 63
anni. Finché nello scorso luglio un team di
subacquei della spedizione «Mizar 4» è riuscito a
individuare i resti dell'Armando Diaz.
Un'esplorazione difficile, tra improvvise tempeste e
correnti minacciose, raccontata in esclusiva sul
mensile Focus da Pietro Faggioli.
A fornire le indicazioni giuste è stato un pescatore
di Lampedusa, Turiddu: quei resti monumentali
infatti sono un pericolo costante per le reti. Lungo
160 metri e largo 15, il grande scafo d'acciaio
spesso ha creato problemi ai pescherecci
dell'isoletta che l'hanno ribattezzato «il
condominio». Ma nessuno si era preoccupato di
identificarlo. Invece la spedizione Mizar 4 è
riuscita a fotografarlo, riscoprendo la «A» di Diaz
rimasta sulla fiancata, le torri d'acciaio, i
cannoni puntati troppo tardi verso l'ultima
minaccia.
L'unica cosa che il tempo e il mare non sono
riusciti a cancellare sono le ferite delle terribili
esplosioni, quegli squarci nella fiancata. Trenta
metri di nave sono stati polverizzati: la prua si è
staccata dal resto dello scafo, giace a 400 metri
con i pezzi binati da 152 millimetri sparpagliati
nei fondali. «Vi fu una prima esplosione - raccontò
un ufficiale dell'incrociatore Bande Nere,
ammiraglia della stessa missione -, poi una seconda
grande simile a un'alta fontana luminosa, dalla
quale si innalzarono rottami voluminosi. Il bagliore
era simile a quello prodotto dalla combustione delle
polveri. Poi per quattro minuti è rimasto ancora un
fuoco di colore vivo, simile a una colata d'acciaio.
Infine è scomparso tutto». Vennero salvati 147
marinai, alcuni si erano aggrappati sull'idrovolante
di bordo, gettato in mare dagli scoppi. Quei
naufraghi furono gli ultimi a vedere la Diaz prima
dei sommozzatori della «Mizar 4».
«Ci siamo immersi all'imbrunire - raccontano i sub -
e siamo scesi sulla poppa. Poi abbiamo visto il
timone insabbiato, di foggia inconfondibile. Lo
scafo era poggiato sul fondo, con un'inclinazione di
60 gradi verso sinistra. L'ancora era saltata via,
le torri dei cannoni con i portelli corazzati
sbarrati. Anche la plancia di direzione del tiro era
chiusa, con vari vetri blindati al loro posto:
alcuni corpi dei marinai sono ancora lì, in questa
bara metallica. Per questo nell'ultima delle venti
immersioni abbiamo appoggiato ai resti una targa
metallica: "Gli italiani non vi hanno dimenticato"».
In quell'angolo della Sirte c'è uno sterminato
cimitero di navi. Ben 277 vennero colate a picco nei
tre anni della guerra d'Africa. La spedizione «Mizar
4» ne ha esplorate molte altre. La più suggestiva
forse è la Reichenfels, con la stiva ancora colma di
autoblindo, camion e equipaggiamenti diretti alle
trincee di El Alamein. Ci sono poi - tra quelle
descritte nel numero di Focus in edicola oggi - la
petroliera Brarena, la motonave Marin Sanudo, il
piroscafo Nita. Vittime d'acciaio sacrificate nel
tentativo di difendere il sogno coloniale
dell'Italia fascista.
G. D. F
fonte:
Corriere della Sera - 11 Novembre 2004
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